giovedì 27 gennaio 2011

Il metodo Autochrome

A destra è visibile un ingrandimento del mosaico dei granuli di amido colorati (circa 600.000 in un centimetro quadrato). A sinistra una delle prime foto realizzate con metodo Autochrome.
Il passo decisivo per la definizione del colore venne compiuto dai fratelli Auguste e Louis Lumiere quando idearono nel 1904 il metodo Autochrome. Anche questo metodo, come i precedenti, era di tipo additivo. La differenza si basava però sul fatto che le lastre, anzichè essere tracciate da piccole righe, venivano cosparse di milioni di puntini colorati che agivano da filtri scindendo la luce nei colori primari. Questi puntini erano granuli di amido di patata tinti di rosso, verde e violetto stesi sulla lastra e ricoperti con un'emulsione sensibile alla luce. Il fotografo doveva solo caricare il suo apparecchio con lastra Autochrome posta col vetro verso l'obiettivo così che la luce potesse raggiungere l'emulsione solo dopo aver attraversato lo strato di filtro multicolore. Lo sviluppo dava ovviamente un'immagine positiva in bianco e nero che però, osservata attraverso questi filtri, appariva nei suoi colori anche se smorzati. Le immagini fotografiche ottenute erano soddisfacenti per l'epoca e anche i tempi di esposizione erano accettabili: un paesaggio assolato, per esempio, richiedeva un'esposizione di un solo secondo a f/5,6. Inoltre la cosa eccezionale era che le lastre Autochrome potevano essere utilizzate con qualsiasi apparecchio fotografico.
Possiamo dire che a questo punto la fotografia a colori era davvero nata, anche se nella sua forma ancora primordiale. Ma era sempre un sistema di tipo additivo,di questo si accorsero i musicisti nonchè appassionati di fotografia Leopold Mannes e Lepold Godowsky che, attorno agli anni venti,  si dedicarono alla ricerca di un metodo di tipo sottrattivo e all'elaborazione dell'"intergral tripack", una pellicola con tre strati di emulsione, ciascuno dei quali era sensibile ad uno dei colori primari. Nonostante però avessero trovato il modo di diffondere i coloranti negli strati di emulsione, il loro risultato era accettabile solo con due colori su tre. I due appassionati lessero che nel 1912 il fisico tedesco Rudolf Fisher aveva indicato di includere in ogni strato della pellicola dei "copulanti cromogeni" che reagissero con le sostanze chimiche usate in fotografia al fine di formare l'immagine a colori. Ad ogni modo non era riuscito ad evitare che questi copulanti migrassero da uno stato all'altro dell'emulsione. A questo punto Mannes e Godowsky, che nel frattempo erano stati chiamati dalla Kodak di Rochester nel 1930, si dedicarono a questo problema. Le loro ricerche portarono al metodo Kodachrome che venne perfezionato negli anni seguenti e diffuso in rulli da 35 mm per gli apparecchi fotografici del tempo. Metodi simili erano stati messi a punto anche dalla società tedesca Agfa, anche se furono diffusi solo dopo la fine del secondo conflitto bellico.Ad ogni modo, verso la fine degli anni cinquanta, la tecnologia Kodak e Agfa costituirono la base per lo sviluppo delle pellicole a colori moderne.
Le prime pellicole in commercio e i primi telaietti in cartone

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