martedì 18 gennaio 2011

La diffusione della fotografia e la conseguente crisi dell'arte


La clamorosa invenzione e il successivo, rapidissimo sviluppo della fotografia mettono comprensibilmente in crisi il mondo artistico del XIX secolo, poiché è subito chiaro che il nuovo mezzo, strumento di sempre più precisa rappresentazione, descrizione e conoscenza delle cose, offre una molteplicità di applicazioni possibili.
Ritrattisti e paesaggisti di genere vengono subito messi fuori gioco dal mezzo meccanico, il quale produce risultati impeccabili a prezzi contenuti e in tempi imparagonabilmente più brevi rispetto a quelli della pittura. Ai ritratti dipinti, infatti, si incominciano a preferire quelli fotografici sia per la novità dell’esperienza, sia per l’indubbio, maggior realismo dei risultati, sia, infine, per la maggior economicità. Molti artisti la adottano come supporto al proprio lavoro, per esempio sostituendo il modello vivente con meno costose fotografie di nudi maschili o femminili; altri se ne servono per prendere più velocemente appunti visivi invece di eseguire schizzi e disegni; altri ancora , è il caso di Nadar, inizialmente modesto pittore e buon caricaturista – si riciclano come fotografi, un mestiere che poteva essere assai richiesto, soprattutto per la ritrattistica, e redditizio.
Mentre la fotografia prende a delinearsi come arte autonoma e con propri caratteri specifici - tra cui l’infinita riproducibilità meccanica dell’immagine - alcuni pittori, soprattutto delle giovani generazioni, se ne lasciano influenzare secondo due principali modalità: alcuni di essi riprendono dalla fotografia l’idea della oggettività della visione e propongono nei propri dipinti tagli e inquadrature tipici del nuovo mezzo; altri ricercano piuttosto una nuova libertà di pittura e d’invenzione, dal momento che la questione verosimiglianza della rappresentazione appare risolta con mezzi diversi da quelli pittorici tradizionali.
Grazie alla fotografia, infatti, la pittura cessa di essere documentaria e si concentra maggiormente sull’analisi psicologica dei personaggi o sulle emozioni che l’artista desidera trasmetterci.
La fotografia, dal canto suo, deriva dalla pittura molte delle principali regole di composizione e di inquadratura, ponendo grande attenzione anche allo studio e al bilanciamento delle luci e delle ombre. Ciò è reso possibile dal fatto che i fotografi lavorano inizialmente in ateliers del tutto simili a quelli dei pittori accademici, con l’unica differenza che al posto dei cavalletti e dei colori vi sono i monumentali apparecchi fotografici a lastre montati su solidi treppiedi. Per le riprese in esterni, poi, vengono via via sperimentati anche dei modelli portatili che, non diversamente dai colori in tubetto usati dagli impressionisti, rendono possibile fotografare anche en plein air: nascono in tal modo le cosiddette istantanee.

Il periodo storico che coincide con l’invenzione del dagherrotipo è attraversato da un allargamento esponenziale del campo del visibile: l’ingrandimento, il rallentatore, il fermo immagine, la fotografia microscopica e quella aerea, permettono all’uomo di moltiplicare esponenzialmente il suo raggio visivo. Vanno a costituire quello che Walter Benjamin definisce inconscio ottico:

" ma la natura che parla alla macchina fotografica è una natura diversa da quella che parla all’occhio; diversa specialmente per questo, che al posto di uno spazio elaborato consapevolmente dall’uomo, c’è anche uno spazio elaborato inconsciamente. Se è del tutto usuale che un uomo si renda conto, per esempio, dell’andatura della gente, egli di certo non sa nulla del loro contegno nel frammento di secondo in cui si allunga il passo. La fotografia, coi suoi mezzi ausiliari: con il rallentatore, con gli ingrandimenti, glielo mostra. Soltalto attraverso la fotografia egli scopre questo inconscio ottico, come, attraverso la psicoanalisi, l’inconscio istintivo ".

1 commento:

Anonimo ha detto...

Informazioni utilissime ;D