giovedì 27 gennaio 2011

Il metodo Autochrome

A destra è visibile un ingrandimento del mosaico dei granuli di amido colorati (circa 600.000 in un centimetro quadrato). A sinistra una delle prime foto realizzate con metodo Autochrome.
Il passo decisivo per la definizione del colore venne compiuto dai fratelli Auguste e Louis Lumiere quando idearono nel 1904 il metodo Autochrome. Anche questo metodo, come i precedenti, era di tipo additivo. La differenza si basava però sul fatto che le lastre, anzichè essere tracciate da piccole righe, venivano cosparse di milioni di puntini colorati che agivano da filtri scindendo la luce nei colori primari. Questi puntini erano granuli di amido di patata tinti di rosso, verde e violetto stesi sulla lastra e ricoperti con un'emulsione sensibile alla luce. Il fotografo doveva solo caricare il suo apparecchio con lastra Autochrome posta col vetro verso l'obiettivo così che la luce potesse raggiungere l'emulsione solo dopo aver attraversato lo strato di filtro multicolore. Lo sviluppo dava ovviamente un'immagine positiva in bianco e nero che però, osservata attraverso questi filtri, appariva nei suoi colori anche se smorzati. Le immagini fotografiche ottenute erano soddisfacenti per l'epoca e anche i tempi di esposizione erano accettabili: un paesaggio assolato, per esempio, richiedeva un'esposizione di un solo secondo a f/5,6. Inoltre la cosa eccezionale era che le lastre Autochrome potevano essere utilizzate con qualsiasi apparecchio fotografico.
Possiamo dire che a questo punto la fotografia a colori era davvero nata, anche se nella sua forma ancora primordiale. Ma era sempre un sistema di tipo additivo,di questo si accorsero i musicisti nonchè appassionati di fotografia Leopold Mannes e Lepold Godowsky che, attorno agli anni venti,  si dedicarono alla ricerca di un metodo di tipo sottrattivo e all'elaborazione dell'"intergral tripack", una pellicola con tre strati di emulsione, ciascuno dei quali era sensibile ad uno dei colori primari. Nonostante però avessero trovato il modo di diffondere i coloranti negli strati di emulsione, il loro risultato era accettabile solo con due colori su tre. I due appassionati lessero che nel 1912 il fisico tedesco Rudolf Fisher aveva indicato di includere in ogni strato della pellicola dei "copulanti cromogeni" che reagissero con le sostanze chimiche usate in fotografia al fine di formare l'immagine a colori. Ad ogni modo non era riuscito ad evitare che questi copulanti migrassero da uno stato all'altro dell'emulsione. A questo punto Mannes e Godowsky, che nel frattempo erano stati chiamati dalla Kodak di Rochester nel 1930, si dedicarono a questo problema. Le loro ricerche portarono al metodo Kodachrome che venne perfezionato negli anni seguenti e diffuso in rulli da 35 mm per gli apparecchi fotografici del tempo. Metodi simili erano stati messi a punto anche dalla società tedesca Agfa, anche se furono diffusi solo dopo la fine del secondo conflitto bellico.Ad ogni modo, verso la fine degli anni cinquanta, la tecnologia Kodak e Agfa costituirono la base per lo sviluppo delle pellicole a colori moderne.
Le prime pellicole in commercio e i primi telaietti in cartone

martedì 25 gennaio 2011

La fotografia a colori

 Un passo importante verso la definizione della fotografia a colori venne compiuto nel 1861 a seguito degli studi condotti dal fisico scozzese James Clerk Maxwell che, illustrò una conferenza sulla visione umana del colore, con quella che potremmo definire la prima fotografia a colori della storia. E' curioso notare però che l'intento di Maxwell non era di tipo fotografico: egli infatti tendeva a dimostrare la validità degli studi condotti a suo tempo dallo scienziato inglese Thomas Young nel 1806 il quale riteneva che l'occhio umano reagisse a tre colori (il rosso, il verde e il blu) e che i rimanenti risultassero la mescolanza di questi tre colori primari. Sulla base della validità di queste considerazioni Maxwell riteneva fosse possibile ricreare tutti i colori di una scena in un'immagine fotografica facendo interagire, nella giusta proporzione, i tre colori primari. Quindi, in collaborazione col fotografo Thomas Sutton, Maxwell proiettò su di uno schermo, alla Royal Institution di Londra, la foto di un nastro scozzese.
 
Il metodo utilizzato si basava sull'utilizzo di tre lanterne magiche e ampolle di vetro colme di liquido colorato che fungevano da filtri. La dimostrazione di Maxwell confermò quindi il principio già esposto da Young. Nell'applicazione pratica però non si poteva ancora ricreare un'immagine a colori dal momento che il materiale fotografico a disposizione era sensibile solo alla luce blu. In realtà Maxwell non avrebbe mai ottenuto un'immagine  attraverso i filtri verde e rosso se non fosse stato per due  combinazioni: la prima che le tinture rosse del nastro riflettevano le luci ultraviolette cui era sensibile la lastra; la seconda che il filtro verde lasciava passare una quantità di luce blu-verde sufficiente per formare un'immagine.
                                                                                             
 Per riprodurre i colori di un soggetto originale Maxwell chiese a Sutton di scattare tre diverse fotografie di un nastro, ognuna con un filtro di colore diverso. Le lastre positive ricavate da queste tre diverse immagini in bianco e nero vennero poste in "lanterne magiche" accuratamente sistemate in modo da sovrapporre l'immagine proiettata, come esposto nel disegno. Proiettando le diapositive attraverso filtri degli stessi colori primari le immagini sovrapposte formavano i colori del nastro.

Contemporaneamente a Maxwell, in Francia Louis Ducos du Hauron studiava un altro metodo che a differenza di quello dello scienziato scozzese era di tipo sottrattivo. Anche nel metodo del francese si fotografava la scena in bianco e nero con tre riprese diverse: una con un filtro rosso, una con quello verde ed una con quello blu. Poi si preparavano tre emulsioni al bicromato di potassio con l'aggiunta rispettivamente di un pigmento magenta, giallo e cyan. Le emulsioni bicromate venivano stese su fogli di carta velina. Quindi ogni negativo filtrato veniva stampato sul foglio con il colore complementare al filtro usato e l'immagine veniva sviluppata con acqua calda: nelle zone rimaste esposte la gelatina colorata rimaneva attaccata al supporto, mentre scompariva in quelle non esposte. Infine le tre immagini venivano trasferite su di un unico foglio per averla nella sua completezza dei colori. E' interessante notare che il principio è lo stesso che viene usato oggi. Le immagini ottenute con questo procedimento erano soddisfacenti. Louis Ducos du Hauron giunse alle sue conclusioni quasi contemporaneamente a quelle cui giunse Charles Cros, così che i due resero pubbliche le loro scoperte in occasione della stessa conferenza della Société Française de Photographie nel maggio del 1869. Così come per il procedimento di Maxwell,  quello dei due francesi non poteva avere immediata applicazione poichè il materiale fotografico disponibile all'epoca era sensibile solo alla luce blu.  








Nel 1873, il dottor Hermann Vogel scoprì emulsioni sensibili alla luce verde e tre anni dopo du Hauron realizzò il suo primo ritratto a colori su carta.

Ma la fotografia a colori non era ancora alla portata di tutti. Così l'inventore americano Frederic E. Ives elaborò, nel 1888, una versione commerciale e semplificata del procedimento di Maxwell. 
In seguito commercializzò dei congegni per scattare e rivedere delle fotografie a colori.
Il più famoso di questi era il visore Kromskop in cui erano contenuti e disposti dei riflettori colorati. Guardando nell'oculare si vedevano tre immagini in bianco e nero riunite in un'unica immagine a colori. 


Verso la fine del 1890, il professor John Joly elaborò una tecnica che consentiva di usare una sola lastra al posto di tre e di porre i tre filtri colorati sopra l'emulsione sensibile alla luce anzichè sopra l'obiettivo. Per preparare i suoi filtri tracciò delle sottilissime linee rosse, verdi e blu sopra una lastra di vetro e mise questo schermo rigato contro una lastra fotografica prima di esporla utilizzando un comune apparecchio fotografico. Sotto le linee colorate la lastra registrava il colore corrispondente. Una volta tolto lo schermo rigato la lastra veniva sviluppata e stampata a contatto con una seconda lastra in modo da produrre un'immagine positiva. Rimontando lo schermo rigato sulla foto ottenuta si ottenevamo i colori dell'immagine originale. Questo metodo subì notevoli miglioramenti come, per esempio, nel caso della lastra di Paget che consentiva di abbreviare i tempi di esposizione, semplificare lo sviluppo e ottenere colori più vivi.




Col tempo, ai semplici schermi rigati vennero sostituiti schermi con mosaici di colori. Paget sfruttava un disegno a scacchi.La struttura di questo schermo era molto più fine di quella di Paget e quindi si ottenevano immagini più definite.

martedì 18 gennaio 2011

Cos'è la fotografia per voi ?

La figura del fotografo venne considerata da Baudelaire quella di “un pittore mancato” ma non dimentichiamo invece che la fotografia influenzò moltissimo gli Impressionisti e il loro rivoluzionario modo di dipingere.
Per me il mezzo fotografico possiede e necessita sia di forza espressiva che di ricerca culturale,a prescindere ovviamente dalla conoscenza della tecnica specifica.
Di certo, se si parla di buona fotografia, questo mezzo è in grado di estendere la nostra percezione, suscitare fascino ed interesse in chi la guarda.
E’ inoltre in grado di produrre stimoli di riflessione che nulla hanno da invidiare alla parola scritta, avendo la prerogativa di rendere, in vividi dettagli, il mondo visibile in tutte le sue molteplici forme.
Lo sguardo indagatore e talvolta inquieto del fotografo ha il potere di suggerire altre realtà celate sotto la superficie del visibile. Ma occorre uno sguardo speciale capace di vedere e di far vedere, percepire differenze e trovare e creare un linguaggio in grado di descrivere contraddizioni e incertezze allo scopo di trovare una forma privilegiata che riesca a coniugare la necessità di guardare con la propria inquietudine suscitata dall’oggetto osservato.
Immagini, idee, sentimenti possono essere trasmessi dalla fotografia, intesa come arte visiva, in un inedito confronto con la realtà.
Tra sguardo umano e sguardo fotografico vi è una fessura destinata a dilatarsi sempre più, si tratta di una sorta di “estraneamento” dell’immagine fotografica rispetto alla realtà e ne può nascere quindi una “nuova realtà” più inquietante e pregnante, affascinante e anche seducente, proprio perché la realtà, di per sé, è solo apparente.
Una bella fotografia è in grado di alludere, con il suo strano potere, ad uno spazio magico: l’oggetto, il paesaggio o la figura umana si lasciano oltrepassare e dirigere verso una dimensione immaginaria, misteriosa: uno spazio in cui perdersi. Va oltre la superficie delle cose e ci mostra l’inaccessibile e il misterioso che sono nascosti nel nostro paesaggio quotidiano. 
 
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L'influenza della fotografia

La fotografia influenzò un insieme di lenti spostamenti che, tra il 1910 e il 1915, condussero ad un drastico scossone destinato a diventare uno spartiacque nella tradizione dell’arte europea.

L’arte doveva veicolare una rivoluzione dello spirito: qualsiasi riferimento nelle opere alla percezione comune e al mondo materiale andava eliminata.Con la scoperta e il miglioramento della fotografia, l’arte perde il compito di rappresentare o raccontare la realtà, benché le nuove scoperte erano mezzi assai più fedeli e adatti a quest’obiettivo. L'arte si pone, a questo punto della storia umana, come un puro veicolo espressivo.

Successivamente poi, durante il Costruttivismo Aleksandr Rodcenko si esercitò nella grafica pubblica ma soprattutto nella fotografia, arte che solo allora stava davvero trovando una spiccata autonomia dai modelli pittorici che ne avevano segnato gli esordi. Insieme a Majakovskij ebbe intuizioni profetiche sul potere dei media. Fu seguendo questa medesima pista che Rodcenko si dedicò ai fotomontaggi , che influenzarono molto anche gli sviluppi di un cinematografo astratto e precorritore delle animazioni. (1915-17)

  
Laszlo Moholy-Nagy (1895-1946), austero insegnante
ungherese del Bauhaus, fotografo, scultore, designer era attratto da tutte le pratiche sperimentali che avvicinava con spirito scientifico. Nel suo libro “Dal materiale all’architettura” (1929) dimostra il suo approccio rigoroso all’insegnamento e anche la sua costante preoccupazione di rendere l’arte un aspetto utile alla convivenza civile:
durante gli ultimi cento anni -scrisse- l’indulgenza soggettiva nel creare arte non ha contribuito in nulla alla felicità delle masse”.
Cercando di andare oltre questo empasse, impostò la sua arte e una sperimentazione meccanica basata sulla interazione tra luce, oggetto e movimento, nel tentativo di 
coinvolgere direttamente il pubblico. 
 

Man Ray, esponente del dadaismo newyorkese, si dedicò fin da giovane al design e alla fotografia, campo nel quale trovò un vasto successo anche economico. Come fotografo, Man Ray portò alla luce tutte le possibilità di sperimentazione, facendo ritratti,fotografie di “sculture” che valevano come opere in quanto tali: non dunque in quanto “riproduzioni” ma come “produzioni” dotate di una loro specifica autonomia. Sul piano tecnico la sua proposta più importante furono le cosiddette Rayografie, fotografie ottenute appoggiando oggetti sulla carta fotosensibile ed esponendoli alla luce per qualche istante. Questo procedimento, così come la sovrapposizione di molti negativi in fase di stampa e la manipolazione della stampa attraverso processi di solarizzazione e viraggio, erano nati con la fotografia stessa ed erano patrimonio abbastanza comune dei fotografi già nel XIX secolo.
Il merito di Man Ray consistette nell’aver proposto al pubblico le immagini così autoritratto ottenute non più come fenomeni per stupire, ma al pari di componimenti pittorici.

Marcel Duchamp (1897-1968..) influenzò tutta l’arte del XX secolo, un’influenza che può essere paragonabile per intensità a quella di Picasso, anche se ha agito su un versante opposto: quello dell’abbandono della pittura come mezzo privilegiato dell’espressione artistica visiva. Il suo lavoro fu provocatorio, ma anche complesso e denso di riferimenti a quella stessa tradizione artistica di cui fu un critico acuto. Le sue opere possono essere inscritte in tre categorie principali: i dipinti, gli oggetti e le fotografie in cui ritraeva se stesso, a cui si devono aggiungere i dischi in movimento detti rotoreliefEssendo dati 1)il gas 2)la cascata d’acqua (1946-66). (1936) e la tarda installazione ambientale
I suoi esordi come pittore cubista non furono salutati da grande successo, ma il suo Nudo che scende le scale (influenzato dalla cronofotografia, 1912), esposto all’Armory Show di New York, suscitò vivaci polemiche: dipingere un nudo in movimento era rivoluzionario, in quanto privava il corpo dell’aura sacrale conferitagli dall’immortalità; se il nudo classico e fermo non desta alcuno scalpore ed è, anzi, parte del vocabolario consueto dell’arte, il nudo
in movimento diventa un segno irriverente quanto potrebbe esserlo una qualunque persona
senza abiti incontrata per strada.Duchamp è stato l’iniziatore delle opere sul corpo dell’artista, che proseguono la tradizione dell’autoritratto con mezzi soprattutto fotografici. In pratica l’artista si traveste, moltiplica la propria identità oppure la annulla interpretando personaggi diversi. L’autoritratto è un genere che nacque quando l’artista iniziò ad avvertire l’importanza della propria individualità e quando all’artista iniziarono a essere attribuiti termini in relazione col divino, come “genio”, “ispirazione”, “vocazione”; con Duchamp esso fa un balzo in avanti, denunciando l’enfasi che la cultura occidentale ha posto sull’individuo singolo ed eccezionale come motore della storia, dell’economia e dell’arte. 
                                                                                                                                                                              Questo tema è lampante nella fotografia in cui Duchamp compare 
con una chierica a stella sulla nuca.
Si intitola Tonsura e la scattò Man Ray, amico fidato, nel 1919. Uno “scherzo” molto semplice: la stella a cinque punte è simbolo di illuminazione; la testa è il luogo del pensiero; secondo le teorie gnoseologiche di carattere mistico le conoscenze arrivano alla mente dall’alto, per il tramite di un raggio di luce intellettuale. La tonsura è una caratteristica di chi ha rinunciato al mondo per cercare la conoscenza.Duchamp dichiarava, seppure in maniera ironica, la propria dedizione alla ricerca della conoscenza.

La diffusione della fotografia e la conseguente crisi dell'arte


La clamorosa invenzione e il successivo, rapidissimo sviluppo della fotografia mettono comprensibilmente in crisi il mondo artistico del XIX secolo, poiché è subito chiaro che il nuovo mezzo, strumento di sempre più precisa rappresentazione, descrizione e conoscenza delle cose, offre una molteplicità di applicazioni possibili.
Ritrattisti e paesaggisti di genere vengono subito messi fuori gioco dal mezzo meccanico, il quale produce risultati impeccabili a prezzi contenuti e in tempi imparagonabilmente più brevi rispetto a quelli della pittura. Ai ritratti dipinti, infatti, si incominciano a preferire quelli fotografici sia per la novità dell’esperienza, sia per l’indubbio, maggior realismo dei risultati, sia, infine, per la maggior economicità. Molti artisti la adottano come supporto al proprio lavoro, per esempio sostituendo il modello vivente con meno costose fotografie di nudi maschili o femminili; altri se ne servono per prendere più velocemente appunti visivi invece di eseguire schizzi e disegni; altri ancora , è il caso di Nadar, inizialmente modesto pittore e buon caricaturista – si riciclano come fotografi, un mestiere che poteva essere assai richiesto, soprattutto per la ritrattistica, e redditizio.
Mentre la fotografia prende a delinearsi come arte autonoma e con propri caratteri specifici - tra cui l’infinita riproducibilità meccanica dell’immagine - alcuni pittori, soprattutto delle giovani generazioni, se ne lasciano influenzare secondo due principali modalità: alcuni di essi riprendono dalla fotografia l’idea della oggettività della visione e propongono nei propri dipinti tagli e inquadrature tipici del nuovo mezzo; altri ricercano piuttosto una nuova libertà di pittura e d’invenzione, dal momento che la questione verosimiglianza della rappresentazione appare risolta con mezzi diversi da quelli pittorici tradizionali.
Grazie alla fotografia, infatti, la pittura cessa di essere documentaria e si concentra maggiormente sull’analisi psicologica dei personaggi o sulle emozioni che l’artista desidera trasmetterci.
La fotografia, dal canto suo, deriva dalla pittura molte delle principali regole di composizione e di inquadratura, ponendo grande attenzione anche allo studio e al bilanciamento delle luci e delle ombre. Ciò è reso possibile dal fatto che i fotografi lavorano inizialmente in ateliers del tutto simili a quelli dei pittori accademici, con l’unica differenza che al posto dei cavalletti e dei colori vi sono i monumentali apparecchi fotografici a lastre montati su solidi treppiedi. Per le riprese in esterni, poi, vengono via via sperimentati anche dei modelli portatili che, non diversamente dai colori in tubetto usati dagli impressionisti, rendono possibile fotografare anche en plein air: nascono in tal modo le cosiddette istantanee.

Il periodo storico che coincide con l’invenzione del dagherrotipo è attraversato da un allargamento esponenziale del campo del visibile: l’ingrandimento, il rallentatore, il fermo immagine, la fotografia microscopica e quella aerea, permettono all’uomo di moltiplicare esponenzialmente il suo raggio visivo. Vanno a costituire quello che Walter Benjamin definisce inconscio ottico:

" ma la natura che parla alla macchina fotografica è una natura diversa da quella che parla all’occhio; diversa specialmente per questo, che al posto di uno spazio elaborato consapevolmente dall’uomo, c’è anche uno spazio elaborato inconsciamente. Se è del tutto usuale che un uomo si renda conto, per esempio, dell’andatura della gente, egli di certo non sa nulla del loro contegno nel frammento di secondo in cui si allunga il passo. La fotografia, coi suoi mezzi ausiliari: con il rallentatore, con gli ingrandimenti, glielo mostra. Soltalto attraverso la fotografia egli scopre questo inconscio ottico, come, attraverso la psicoanalisi, l’inconscio istintivo ".

La conquista del movimento



La fotografia istantanea, inseguita e discussa fin dalla nascita della fotografia, e auspicata con ogni miglioramento della tecnica, divenne realtà al momento dell'invenzione della lastra al collodio secco.
Il desiderio di generazioni di fotografi di riprendere oggetti in movimento divenne realtà.
Le prime pose istantanee che suscitarono meraviglia a livello internazionale furono le fotografie di un cavallo in corsa realazzate da Eadweard Muybridge.
Aveva compiuto i primi tentativi di visualizzare fotograficamente un cavallo in corsa nel 1872.Fu il secondo tentativo, nel 1877, che rivoluzionò il mondo della fotografia.
Quando compì questi primi esperimenti fu costretto a usare le lastre al collodio umido.Le prime immagini consistevano in una sorta di silhouette, ma difficilmente risultavano nitide.
Nonostante ciò, nel 1879 egli ottenne il brevetto per il suo metodo.
Muybridge sosteneva di aver impiegato un tempo un tempo di posa di 1/10000 di secondo.
Lo stesso tentativo lo fece fotografando un toro, in entrambi i casi ricorse ad un set di ripresa, sistemando in batteria una serie di apparecchi fotografici (tra i 10 e i 30) rivolti verso la pista da corsa.Gli otturatori di queste macchine, chiusi da elettrocalamite, venivano fatti scattare in successione per mezzo di deboli fili collegati alle fotocamere, che al passaggio dell'animale si rompevano, l'uno dopo l'altro, liberando gli otturatori dal blocco delle elettrocalamite.
Tra il 1883 e il 1884 Muybridge iniziò i supi esperimenti con le lastre al collodio secco, usando quaranta apparecchi dotati di obiettivo Dallmeyer e otturatore elettro-magnetico, fotografando uomini e cavalli.I risultati furono sorprendenti.
Eadweard Muybridge riuscì quindi a bloccare e ad analizzare le varie fasi e riuscì a mettere
direttamente le basi per quelli che saranno i futuri sviluppi della cinematografia.


domenica 16 gennaio 2011

"Voi schiacciate il pulsante, il resto lo facciamo noi"

Nonostante l'uso del collodio umido fosse difficile, questa nuova tecnica prese piede e il famoso inventore della Kodak, George Eastman semplificò l'atto dello scatto , riducendo il peso e le dimensioni dei macchinari fotografici.Così la fotografia amatoriale acquisì un'importante posizione.
Inizialmente inventò una macchina che ricopriva le lastre di vetro con un'emulsione fotosensibile contemporaneamente.
Eastman basò i suoi affari su questi principi: 
- Produzione di grandi quantità attraverso l'utilizzo di macchinari; 
- Prezzi bassi per aumentare l'utilità dei prodotti;
- Distribuzione nazionale ed estera; 
- Ampia pubblicità

Nel 1870 si interessò a trovare un nuovo supporto per l'emulsione, che fosse meno fragile e più leggero del vetro.Decise così di utilizzare la carta e ricoprirla di due strati di gelatina, il primo strato sensibilizzato, il secondo solubile.
Dopo lo sviluppo, il secondo strato sciolto in acqua calda e l'immagine rimaneva solo sullo strato sensibilizzato.
Nel 1888 si concentrò all'apparecchio fotografico, costruì quindi una scatola di piccole dimensioni che poteva essere tenuta in mano durante la ripresa.Il nome dell'apparecchiatura fu chiamata KODAK.

Primo apparecchio fotografico dotato di pellicola in bobina, la Box Kodak era dotata di un obiettivo di 57 mm di lunghezza focale, con apertura relativa f/9. Era precaricata con pellicola flessibile di 70mm di larghezza per cento esposizioni tonde di 64mm di diametro.







La realizzazione della Box Kodak, con la quale nasce il marchio di fabbrica (Kodak), stabilisce una linea spartiacque: con questa idea nasce il mercato fotografico come ancora oggi l’intendiamo.
La propria commercializzazione fu promossa con il richiamo che sarebbe diventato più che celebre: «Voi schiacciate il bottone, noi facciamo il resto». In un’epoca nella quale i procedimenti fotografici erano assai complessi, con “il resto” si intendevano tutte le lavorazioni di trattamento della pellicola e stampa delle copie.
Venduto a venticinque dollari, l’apparecchio era caricato con pellicola flessibile (invenzione fondamentale) sufficiente per cento esposizioni.
Esauriti gli scatti, l’intero apparecchio andava spedito alla Eastman Dry Plate and Film Co di Rochester (che sarebbe presto divenuta Eastman Kodak): dieci dollari per il trattamento del negativo, la stampa delle copie (tonde, di 64mm di diametro) e il ricaricamento con pellicola vergine.

La rivoluzione del collodio umido

La nuova conquista che contribuì al progresso della fotografia fu il negativo su vetro.
Tra il dagherrotipo e il calotipo, gli esperti pensavano che ci dovesse essere un'invenzione migliore che unisse le qualità di entrambe.
L'invenzione che segnò la nuova era della fotografia fu quella del collodio umido.
Nel 1847, il cugino di Nicephore Niepce adoperò per la prima volta il vetro al posto della carta, utilizzando lastre di vetro coperte da uno strato di albume iodato.
Nel 1846 Gustave Le Gray e Blanquard-Evrard inventarono questa soluzione di fulmicotone in etere che inizialmente era usato come emulsionante, poi nel 1851 l'architetto Frederich Scott Archer ne fece un nuovo uso:ricoprì la lastra di vetro con un sottile strato di collodio umido per trattenere gli agenti chimici fotosensibili.
L'immagine prodotta era perfettamente definita, precisa nei dettagli e ben bilanciata nei colori tonali.Era un'immagine in negativo dalla quale potevano essere stampate altre immagini in positivo.
Il problema che ostacola la via verso la democratizzazione della fotografia è il difficile uso del collodio in quanto esso andava preparato al momento e il lavoro di sviluppo andava anch'esso svolto quando il collodio era ancora umido.

Le origini della fotografia

 Nicéphore Niépce,1826, a Saint-Loup-De-Varenn   
Joseph Nichephore Niepce 

L'interesse per la produzione di immagini senza l'intervento dell'uomo gli venne dalla litografia: sperimentando diverse tecniche Niépce riesce ad ottenere, nel 1826, la sua prima immagine disegnata dalla luce (dopo aver steso uno strato di bitume di Giudea ridotto in polvere e disciolto in essenza di lavanda; la soluzione viene pennellata su una lamina di rame ricoperta d'argento quindi fatta asciugare; lo strato di vernice fotosensibile viene esposto per otto ore sul fondo di una camera oscura, successivamente la lamina viene immersa in un bagno di lavanda e petrolio bianco per dissolvere i frammenti che non hanno ricevuto la luce e così si ottiene l'immagine in negativo. Per il positivo occorre un contenitore con cristalli di iodio che formano depositi di ioduro d'argento; eliminando la vernice con l'alcool appare l'immagine fotografica vera e propria) che definisce eliografia:la madre della moderna fotografia.
L'unico imprevisto è che il risultato del suo lavoro non è fissato e quindi si annerisce progressivamente al contatto con la luce. Il suo impegno è dedicato, in questi anni, al miglioramento della nitidezza dell'immagine. Nel 1827, durante un viaggio a Parigi conosce Daguerre che in seguito diventerà suo collaboratore. Nel 1829 fonda con Daguerre un'associazione per il perfezionamento dei materiali fotosensibili. Muore tuttavia prima di vedere riconosciuta l'importanza delle sue ricerche a Saint Loup de Varenne nel 1833.

Daguerre continua da solo le ricerche che lo portano al dagherrotipo: lastre di argento sensibili che vengono inserite all'interno di scatole, dove l'argento cpon il sole innerisce.Ebbe grande merito in quanto diminuì il tempo di esposizione a venti minuti e permise quindi l'utilizzazione della fotografia a fine pratici.Tale risultato lo raggiunse nel 1835 grazie alla scoperta di un metodo di sviluppoi con i vapori di mercurio, creando l'immagine latente su una lastra che era stata sottoposta alla luce, l'immagine veniva fissata in acqua salata. La data ufficiale della scoperta della fotografia è il 19 agosto del 1939.
                                                                                         

William Henry Fox Talbot inventa la calotipia nel 1841, ovvero utilizza un supporto cartaceo imbevuto nei sali d'argento espondendolo al sole, che traccia la sagoma dell'oggetto appoggiato, producendo un negativo fissato con iposolfito di sodio.Ciò rese possibile riprodurre gran numeri di stampe.
Il primo libro illustrato è photogenic 
drawing e il primo fascicolo settimanale 
è pencil of nature.